Immaginate il buio intorno, le sigarette spente sulla pancia, le lamette che vi tagliano braccia e gambe. Immaginate i calci e i pugni dati solo per far vedere chi comanda, i vetri che sono troppo piccoli e quindi rimangono per sempre sottopelle. Immaginate lo stupro, una, due, tre volte fino ad arrivare a sei. È troppo vero? Fa male leggerlo, vero? Ecco: Cioccolato e pistacchio è esattamente così.

Il libro nasce nel 2011 dalla penna di una giornalista, Chiara Lico, che all’epoca seguiva per lavoro una serie di casi di violenza di questo tipo. Allo stremo delle forze dopo aver sentito l’ennesima storia di una donna distrutta, decide di crearci un libro sopra. E perché questo libro viene pubblicato solo ora? Semplice: perché, come ci tiene a specificare nella prefazione, la violenza piace, ma fino a un certo punto. E in questo libricino di 150 pagine ce n’è talmente tanta che ho dovuto fare tante pause per respirare, per calmare il flusso di pensieri e cercare di zittire quella domanda che mi tormentava: perché fare così tanto male a una persona?

La trama l’avrete intuita, ma è comunque degna di nota. La protagonista è Rossella o meglio Alessandra, che ha dovuto cambiare identità per poter essere al sicuro dai suoi aguzzini. In una sera di amore, lei e il suo ragazzo dell’epoca vengono presi di mira da un gruppo di sciacalli: Matteo, il ragazzo, viene picchiato a sangue, costretto ad assistere a parte della violenza che toccherà ad Alessandra. Il dolore di quella notte, le torture subite sono tante, talmente tante da costringerla a un viso nuovo, un naso storto, una mascella serrata e un’acidità continua che si trasforma spesso in disgusto verso la felicità altrui. Alessandra è come una bambola rotta: è incazzata nera e ne ha tutte le ragioni, perché quella notte ha distrutto lei, la sua famiglia, il suo lavoro e tutto ciò che era prima. Rossella era professoressa alle medie, Alessandra invece vende scarpe in un negozio perché pensare a qualcosa di più impegnativo la sfiancherebbe a morte. Rossella aveva una famiglia bella compatta e un ragazzo che l’amava e la faceva ridere; Alessandra, invece, ha come migliore amica l’infermiera che l’ha salvata e una madre che sembra una reduce di guerra. Ma come se non bastasse, di violenza ne arriva a fiumi in questo libro ed è così che arriva Mihela: rumena con l’accento marchigiano, costretta a prostituirsi per fare qualche soldo e sempre piena di botte per il pappone che la fa andare in strada.

Insomma, se aprendo questo libro credete di trovare una semplice testimonianza vi sbagliate di grosso. Il dolore di Alessandra e Mihela è vero, palpabile, perché è realmente esistito: il lettore sente il peso di ogni danno che da quell’inferno ci è passata davvero, finendo morta in un sacco nero o viva a malapena, costretta a rimettere insieme i pezzi. Un libro che ha bisogno di lettori non deboli di cuore né di stomaco, perché qui non si parla di cose che potrebbero accadere, non si lascia intendere: è tutto maledettamente vero, per questo fa così male.

La scelta del titolo fa sorridere e anche un po’ scendere la lacrimuccia, ma non vi dirò perché. Leggetelo, se ne avete il coraggio, ma se lo farete posso assicurarvi che ne varrà la pena.

VOTO: 5/5