Edda: una cittadina industriale sperduta tra gli immensi scenari naturali norvegesi, storico caposaldo del paganesimo, convertitosi alla cristianità per ultimo e controvoglia. Due fratelli adolescenti, originari del luogo, vi fanno ritorno a seguito dell’assunzione della madre presso il locale stabilimento chimico. Uno è biondo, grande, grosso e dislessico, l’altro moro, esile, con una faccia che è tutto un programma e grandi occhi celesti. Cosa abbia spinto la famigliola ad allontanarsi dai lidi natali non ci è dato sapere: nel frattempo però papà è morto, lasciando dietro sé, oltre al vuoto incolmabile, un “comune” articolo da ferramenta sulla cui elsa campeggia un’unica iniziale, la runa “W”.

Il riscaldamento globale sta sputtanando il pianeta e gli effetti si fanno sentire anche tra i fiordi; i salmoni che nuotavano spensierati nei fiumi vengono a galla morti a causa del mercurio scaricato abusivamente in acqua dagli Jutul, una famiglia di ricconi, bellissimi e stronzi, caratterizzata dalla “superior bone structure” tipica delle genti norrene.

Piove spesso, e tuona, tuona un sacco.

Le premesse non potrebbero essere più esplicite (ed entusiasmanti) per chiunque possegga uno straccio d’infarinatura sulla mitologia scandinava o abbia visto qualche film Marvel.

Grazie a una scrittura magistrale e alla regia attenta, la trama procede spedita, senza perdersi in digressioni superflue: ben presto, asce, segugi infernali e soprattutto il Martello entrano trionfalmente in scena.

Ragnarok è stato paragonato a Twilight, non a torto se in riferimento al primo episodio, quando era possibile intuire tra le mille cazzate il potenziale fighissimo (subito disatteso) della saga cinematografica; qua e là vi ho ravvisato un’eco dei rarissimi momenti buoni di Smallville, ma la verità è che l’originale Netflix vanta un’identità ben precisa, ed è a tutti gli effetti una bomba.

In parte dramma adolescenziale, senza le forzature dei cugini americani, Ragnarok è una serie dai contenuti adulti, valorizzata da un cast indovinatissimo.

Ragazzi: che facce! Il fratello biondo (Magne), via via sempre più affine a fulmini e temporali, e quello astuto, infingardo e sessualmente onnivoro (Laurits), sono perfetti in quanto a fisicità e interpretazione. Sopita la maggior parte del tempo, la reale natura dei personaggi viene alla luce con prepotenza, quando la memoria truce dei tempi antichi ha la meglio sull’effimera compostezza del presente, magari nel corso di danze tribali fomentate a idromele o acidi.

Sebbene a conti fatti sia innegabile la centralità del Tonante protagonista (e ci mancherebbe altro), i comprimari sono altrettanto ben caratterizzati. Valore aggiunto gli immensi paesaggi i cui monti innevati, laghi e ghiacciai di dimensioni titaniche incombono sullo spettatore evidenziando la connotazione superna delle forze in campo.

Apparente ibrido tra un thriller sovrannaturale e una storia di super eroi, Ragnarok è in realtà molto di più: non arriverò a dire che echeggia di esperienze ancestrali, perché se così facessi rivelerei di essere pazzo (ooops!), ma in effetti fa pensare a un racconto narrato alla luce di un fuoco da campo da un trovatore vagabondo.

Per la barba di mio Padre, cosa aspettate a vederlo?

P.S.

Non sarebbe stato male se Netflix avesse investito qualche migliaio di euro in più nel finale, comunque dignitoso; per stavolta tocca accontentarci, sperando che nella prossima stagione a idee tanto ispirate corrisponda un budget all’altezza.