Moby Dick è un libro che ho letto un caldo Agosto di quattro anni fa ma da allora non ha mai smesso di tormentarmi.
Avete presente quella sensazione di avere un pezzo di qualcosa, un pezzo di storia, conficcato dentro e che inevitabilmente rimescola tutto quello che c’era prima e vi fa vedere le cose in modo diverso?
Come se uno spiraglio di sole avesse iniziato a passare tra le persiane semichiuse…
Beh, Moby Dick su di me ha avuto più o meno questo effetto.
In particolare, è dell’incipit che mi sono innamorata.

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E’ un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo d’atteggiare le labbra al torvo; ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tuti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano

Chiamatemi Ismaele


Ho spesso sentito dire che la parte più bella di questo incipit è la sua capacità di coinvolgere il lettore, che l’espressione “chiamatemi” lo fa subito sentire vicino a chi scrive.
Io ci vedo qualcos’altro.
L’espressione “chiamatemi Ismaele” mi fa pensare che per chi scrive non è importante il suo nome, potremmo chiamarlo Ismaele come in qualsiasi altro modo perchè, in verità, il suo nome conta poco rispetto alla grandezza della storia che si accinge a raccontare.
E nella vita è spesso così.
Non è il nome che qualifica una persona, sono le esperienze che ha vissuto e porta con sè.
Ho incontrato persone terribilmente belle perché erano così piene di vita, avevano goduto dei paesaggi, letto libri, ascoltato musica, sentito tanti odori che mi sembrava che tutti i passi che avevano percorso, le cose che avevano pensato, le strade che avevano attraversato con curiosità, le lezioni che avevano imparato fluissero da loro a me, insegnandomi a guardare più in là della linea del mio orizzonte.
Non sei mai povero se hai dietro una storia da raccontare; non rischi di restare vuoto se siedi vicino a qualcuno e lo ascolti raccontare.
E così come non conta il nome, non conta neanche sapere esattamente quando si sono svolti i fatti; tutto ciò che conta si riduce alla lezione che impari, a quello che sei in grado di fare con ciò che hai ascoltato e che hai reso tuo.

“C’è una saggezza che è dolore; ma c’è un dolore che è follia”


La storia del Capitano Achab e di Moby Dick è così piena di passione da condensare in poche pagine la gamma di emozioni che alcuni provano durante una vita intera, è un’opera d’arte, una stella che brilla di luce propria tanto da non aver bisogno di essere collocata nel tempo.
In effetti, leggendo Moby Dick, poco mi è importato del nome di colui che è sopravvissuto all’incontro con la balena bianca per raccontarlo o che anno corresse quando ciò accadeva.
Perché?
Perché la grandezza della storia che ho letto, nel giro di quasi seicento pagine, ha concentrato in una sola fitta acutissima, la somma di tutte quelle sofferenze e passioni che in genere si trovano sparse qua e là nel corso della vita, intervallate da piatti momenti di quiete, momenti in cui il mare è talmente calmo da confondersi con il cielo.
Il Capitano Achab mi ha sempre affascinato per la sua sete di vendetta e la sua caparbietà.
È vero, è stato capace di un odio così grande che ha deciso di affondare anche se stesso per trascinare Moby Dick giù con sè.
Ma ha avuto anche l’ammirevole forza di sfidare la propria paura, che si presentava sotto la forma della gobba di una certa balena, invece di farsi imprigionare da essa.
Come può un prigioniero arrivare fuori se non si caccia attraverso il muro?
Moby Dick rappresenta il muro che separa Achab da qualcosa di imperacrutabile, che egli stesso dice che potrebbe essere nulla come anche il suo contrario, eppure ciò gli basta, è la molla che lo spinge ad avanzare.
Tutti abbiamo bisogno di una certa leva: se nulla ci spingesse sull’orlo del precipizio, probabilmente non salteremmo mai.
La Balena Bianca è quella leva e nuota davanti ad Achab come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui gli uomini si sentono rodere nell’intimo e che se non si risolvono ad affrontare e padroneggiare, finiscono per ridurli a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone.
Moby Dick rappresenta tutto ciò che sconvolge e tormenta la ragione, il limite che dobbiamo superare e le difficoltà che dobbiamo affrontare se vogliamo diventare noi stessi.
Una simile storia, carica del patimento di Achab che come una miccia accende tutto l’equipaggio e rende il lettore parte dello stesso, condensa un secolo di emozioni, formate dall’intensità dei singoli istanti descritti: perché, anche nel loro centro senza punto, alcune storie sono così nobili da contenere tutta la circonferenza di un’infinità di storie inferiori.

Tornando ad Ismaele

Vi dirò cosa mi ha colpito.
Anzitutto ciò che spinge Ismaele a mettersi in mare.
Si trovava in una di quelle fasi di stallo della vita, quando hai poco da perdere, quando non hai molti obiettivi, quando la routine smette di rassicurarti e comincia a pesare, quando il groviglio dei tuoi pensieri si trasforma in malinconia mentre Novembre è fuori e dentro di te, si ingialliscono le foglie e sbiadiscono i ricordi, velati da una patina di malinconia.
Spesso proviamo sensazioni simili e il modo per evadere, che richiede coraggio, è quello di cambiare l’ambiente che ci circonda.
Ismaele si mette in mare.
Mettersi in mare è la metafora della ricerca di nuove emozioni da provare, di quella scintilla che ci attraversa la spina dorsale mentre pensiamo che avventura sia essere vivi e liberi di andare.

“Tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano”


E quando l’ho letto mi sono trovata d’accordo.
Tutti abbiamo bisogno, prima o poi, in un modo o nell’altro, di allontanarci dalla sicurezza della terraferma e sfidare l’incognita nascosta tra la schiuma bianca delle onde.
Parlerò di un momento particolare in cui ho tagliato nettamente con la mia routine alla ricerca di quelle emozioni che ti investono come un tir in velocità e non ti lasciano il tempo di difenderti.
Perché a volte è terapeutico spegnere la mente e accendere i sensi, abbandonarsi all’istinto.
Era Novembre, un Novembre umido e piovigginoso come quello dell’incipit, mi ero accorta di passare spesso le giornate alla finestra a guardare il fumo che si muoveva dalla sigaretta stretta fra le dita verso l’alto, verso il cielo che cominciava a diventare scuro.
Guardavo la gente passeggiare di sotto tranquilla, il naso infilato nelle sciarpe, e sentivo qualche risata salire fino al mio balcone.
Mi sentivo un po’ Ismaele perchè io non ero parte di ciò che vedevo, il malumore era tanto forte in me che mi occorreva un robusto principio morale per non scendere risoluta in strada a gettare metodicamente per terra il cappello alla gente.
Chissà se in altri tempi ciò mi avrebbe spinta ad imbarcarmi su una baleniera ma in quel momento -non importa quanti anni o mesi fa di preciso- ho deciso di partire, di lasciare alle spalle almeno per un pò la vita che avevo e che stava prendendo il sopravvento su di me, spegnendo ciò che un tempo mi rendeva forte e lasciandomi cupa e grigia.
Un surrogato della pistola e della pallottola, una tregua da una vita circolare che si trasforma in un groppo in gola e non ti lascia dormire.

Cosa accade quando ci mettiamo, cheti cheti, in mare


Decidiamo di andare, di lasciarci alle spalle tutto quello che conosciamo.
Io avevo deciso di partire.
Dunque mi sono ritrovata a camminare per le strade di una città che non conoscevo, a gironzolare tra bancarelle di libri usati e vinili, a riposare in sottopassaggi decisamente tetri.
Eppure viaggiare non mi ha solo regalato una storia da raccontare, mi ha dato di più.
Mi ha permesso di conoscere me stessa e di sorprendermi, di scoprirmi forte, in grado di non avere paura mentre camminavo sotto il cielo blu di una notte che non conoscevo in una città che non conoscevo, la capacità di trovare la strada giusta tra le mille strade che mai avevo calpestato, alzarmi la mattina e sentirmi al sicuro pure a chilometri di distanza da casa, senza un viso amico, senza nessuno su cui fare affidamento se non me stessa.
Cambiare aria per un certo periodo, lungo o breve che sia, ci consente di sfidare i nostri limiti.
Sgusciamo via dalle catene invisibili che ci tengono ancorati alla realtà, a quello che dobbiamo fare ogni giorno e finalmente possiamo elevarci al di sopra della routine, considerare la nostra vita e noi stessi in modo diverso, con il distacco necessario per capire se stiamo andando nella direzione giusta o se non sia il caso di cambiare rotta.
Perchè si sa, è difficile capire le cose quando ci sei troppo dentro.
Tagliare con il passato è sempre una sfida perchè bisogna ricostruire tutto dall’inizio: amici, abitudini, un posto in cui sentirsi a casa.
E’ vero, ricominciare può fare paura, non sai mai dove arriverai e come ci arriverai, se avrai la forza necessaria per affrontare gli imprevisti o il cuore abbastanza ostinato da non smettere di credere, anche quando tutto intorno spinge per farti mollare.
Un nuovo inizio non ci regala solo il coraggio di cui, chissà come, ci scopriamo capaci.. quale che sia la nostra avventura, alla fine troveremo una storia, la nostra storia: come siamo stati in grado di sorprenderci tirando fuori una grinta che non credevamo di avere, come soverchiati dai problemi siamo stati in grado di rimanere calmi fino a trovare una soluzione, la capacità che abbiamo avuto di fidarci di uno sconosciuto – perchè si sa, devi fidarti per scoprire se puoi fidarti-, la forza di ascoltare il nostro istinto, asciugare le nostre lacrime quando nessun altro era lì per farlo, la forza di credere in noi, che comunque fosse andata ce la saremmo cavata.
Sto parlando dell’impossibilità di fermarsi.
Della curiosità, innata, inarrestabile di sapere cosa c’è oltre i confini del mondo che conosciamo, di sapere cosa siamo in grado di fare, dove possiamo arrivare, come va a finire la storia, come si concluderà la vita.
Non è tangibile ciò che ci spinge ad andare, non lo è mai.
E’ qualcosa che non riesco a descrivere, qualcosa che si muove sotto la pelle e a cui non possiamo far altro che ubbidire.
E’ elettricità e ci spinge oltre.
Anche adesso, anche quando credete che finalmente siete entrati in un porto sicuro e non spiegherete più le vele alla ricerca di una balena bianca, di un tesoro o di voi stessi, in voi cova la voglia di assaporare ancora l’incerto.
Di continuare a scrivere la storia, darle un degno finale ‘cause a rolling stone gathers no moss.