L’umanità è stata (quasi) spazzata via dal solito virus che ne ha trasformato una grandissima parte in “furiosi”, i nuovi super zombi velocissimi ma abbastanza scemi.

I pochi sopravvissuti, arroccati in comunità costituite per lo più da bifolchi guerrafondai, lottano fra loro per accaparrarsi le sempre più esigue risorse. Fanno eccezione i Randagi, spiriti liberi dediti al vagabondaggio in sella alle loro Harley.

Tra questi spicca Deacon St. John, eroe riluttante (e avatar del giocatore) sulle cui spalle pesa forse il destino del mondo e di sicuro la fortuna del videogioco.

Mi spiego: in un panorama videoludico sempre più orientato alla fruizione online, sporadicamente collaborativa ma più spesso improntata alla competizione, coinvolgere il giocatore in un’esperienza solitaria necessita di un ingrediente speciale.

Pressoché esaurito (anche se non del tutto) il sense of wonder, dopo la colossale epopea di Rockstar nel mondo aperto di Red Dead Redempiton 2, la discriminante non può che essere una: la caratterizzazione del protagonista.

In questa risiede la vera forza di “Days Gone”, ferme restando l’ambientazione dettagliatissima, vasta e suggestiva, la varietà di situazioni e l’imprevedibilità di alcune dinamiche.

Al pari dei celeberrimi Max Payne, John Marston, Arthur Morgan e perché no, Duke Nuk’em, Deacon St. John, personaggio “borderline”, tormentato e malinconico, rappresenta il valore aggiunto, il colpo d’ala che porta l’esperienza di gioco a un livello superiore.

Ho letto su un blog la frase: “My god, Deacon is the worst actor ever”.

Mi ha fatto ridere, ma devo dissentire: se la performance del doppiatore italiano è a dir poco fantastica, non credo Sam Witwer sia stato da meno nella versione originale; dopotutto ha dato prova di sé nel pur non eccezionale Being Human (versione americana) fornendo un interpretazione sempre all’altezza, a scapito dell’insopportabile aspetto da sdraiafemmine impunito.

A tal proposito va detto che, pur condividendone oltre alla voce, le fattezze, Deacon differisce non poco dalla propria controparte umana: anzitutto, lo hanno “sporcato” ad hoc con una barbaccia sfatta; i capelli sono lunghi e in disordine e il fisico, pur prestante, appare più slanciato e meno massiccio rispetto a quello da bambolotto (parla l’invidia) di Witwer.

In quanto alla trama, non innovativa ma comprovante ancora una volta la regola d’oro “non’è la storia, ma come la si racconta” eviterò ogni spoiler: basti sapere che coinvolge e tiene incollati al controller fino all’ultimo.

Un consiglio: prima di iniziare, selezionate tra le opzioni il massimo grado di difficoltà. Verrà così a mancare la mira automatica e l’esperienza ne beneficerà alla grande.

All’inizio dovrete esercitare parecchia cautela; più avanti, nonostante gli upgrade la tensione salirà alle stelle, le orde faranno davvero scaga e sterminarne una vi farà sentire fighi. Sospetto che con l’auto-aim, risulti tutto un po’ troppo facile.

E’ tutto.

Concludo informandovi che chi scrive ha un record personale in “Battlefield: Hardline” di 57 uccisioni e 2 morti (solo perché avevo finito le munizioni).