“You will always be my Queen”.

Colpisce al cuore il “series-finale” della saga più amata di tutti i tempi.

Seguono SPOILER criptici.

Sulle rovine di Approdo del Re e sul futuro dei Sette Regni si staglia, maestosa e inquietante, l’ombra dell’ultimo autentico drago: Danerys Targaryen.

In una sequenza di efficacia siderale Emilia Clarke si incammina verso l’obiettivo mentre Drogon spicca il volo sullo sfondo. L’immagine dell’una si sovrappone all’altro, e per un attimo le ali della bestia sembrano appartenere a colei che ne condivide la natura distruttiva e indomabile.

Danerys celebra il recente trionfo di fronte alle schiere degli imperturbabili immacolati, cui fa da contraltare l’orda dothraki, ebbra di sangue. In una lingua barbara, promette nuove imprese e altri massacri.

Sappiamo già come andrà a finire: resta da vedere come.

Sul chi, nutriamo pochi dubbi.

Gli eventi che portano alla conclusione amara ma necessaria, tanto paventata dai fan, ci vengono narrati nel primo atto dell’episodio: i toni ricalcano quelli della tragedia greca, la regia si concede pochi virtuosismi (uno dei quali particolarmente degno di menzione: la sentinella sotto la cenere), la scansione narrativa è ridotta all’essenziale.

Quando tutto è compiuto, il famigerato trono di spade viene ridotto a una massa informe dal gesto di una creatura orfana di cui, a conti fatti, per otto stagioni abbiamo capito ben poco. Subito dopo, ultimo esponente di un retaggio magico destinato a scomparire, Drogon segue il Night King nell’oblio, salvo esser contattato (o raggiunto?) in seguito dal nuovo re di Westeros, forse il “principe che fu promesso”.

Per parte mia, credo che il titolo profetizzato spetti a un altro: a chi, portato a compimento il proprio destino, fa ritorno là dove tutto era iniziato; presso le genti del “vero Nord”, come un gigante dai capelli rossi definì un giorno i territori al di là della Barriera.

A dargli il benvenuto, nell’ideale chiusura di un cerchio perfetto, un vecchio compagno dall’orecchio mozzo.

La seconda parte è costituita da un lungo epilogo dedicato al commiato tra i personaggi.

Il grigio del fallout apocalittico cede il posto alla luce del giorno cui si affaccia un nuovo ordine; viene addirittura ipotizzato (e subito deriso) un regime democratico. Il potere viene spartito tra coloro maggiormente inclini a esercitarlo secondo giustizia.

“Nessuno è davvero felice, quindi si tratta di un buon compromesso”.

Accantonata la politica, c’è chi parte alla volta di terre inesplorate; chi ottiene quanto altri, nello spietato gioco del trono, hanno perduto; chi fa ritorno a casa.

E noi?

Noi restiamo immobili a contemplare i titoli di coda mentre risuonano per l’ultima volta le note del main theme.

Game of Thrones è finito e il mondo delle serie tv non sarà più lo stesso.

Note a margine:

Peter Dinklage è protagonista indiscusso; se mai ce ne fosse bisogno, dimostra ancora una volta di poter reggere il peso dello show sulle proprie sole spalle: un titano.

Kit Harrington stupisce.

Emilia Clarke non è mai stata così bella.

Nikolai Koster Waldau e Lena Headey si imprimono nella memoria collettiva con un unico, toccante fotogramma.

Maisie Williams issa le vele incontro a una carriera che le auguriamo sfolgorante.

 

 

 

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