Non mi piacciono le prese di posizione drastiche. Tendo a evitare di sbilanciarmi troppo, soprattutto in questo settore: amo leggere e cerco sempre di trovare il buono in ogni libro che leggo, anche in quelli che non mi appassionano più di tanto.

Con Il codice Da Vinci non ci sono riuscita e, quindi, sarò chiara fin da subito: penso sia uno dei libri più sopravvalutati degli ultimi dieci anni. Io, d’altro canto, ero partita con aspettative estremamente alte. Lo osannavano come un capolavoro, il libro che ha consacrato Dan Brown come scrittore. Quando l’ho comprato – grazie a Dio usato, spendendo solo 2 euro – non ho nemmeno letto la trama, perché ero semplicemente curiosa di capire cosa rendesse questo libro così strepitoso.

Ma partiamo dalle informazioni essenziali: Il codice Da Vinci è il quarto romanzo di Dan Brown, ex professore di inglese e storico dell’arte. Quando fu pubblicato, nel 2003, riscosse un successo a livello mondiale con cifre da capogiro: 80 milioni di copie vendute e libri tradotti in più di 20 lingue.

Non volendo farvi incappare nel mio stesso errore, chiariamo subito la trama. Quando Jacques Sauniere, curatore del Louvre nonché grandissimo appassionato di storia dell’arte e cultore del femminino sacro, viene assassinato, non è solo la sua morte a fare scalpore. La polizia francese avvisa immediatamente Robert Langdon, un professore di Harvard studioso di simbologia, ma la scena che si presenta ai suoi occhi è tra le più bizzarre: l’anziano curatore ha ricreato col suo corpo morto l’immagine de L’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci. Ma non solo. Usando il sangue e un po’ del caro vecchio inchiostro simpatico, Sauniere dà il via a una serie di indovinelli e codici che obbligano la polizia a far accorrere l’agente Sophie Neveu, crittologa e nipote del defunto. Inizia una caccia al tesoro che ha un obiettivo ben preciso: la ricerca del Santo Graal. Ma in realtà, c’è molto di più dietro: tra culti pagani, indovinelli e monaci un po’ troppo zelanti, Langdon e Sophie si troveranno al centro di una battaglia che ha radici antichissime, una corsa contro il tempo in cui il traguardo è il ritrovamento del Graal stesso.

Non essendo io una che si arrende di fronte a qualche pagina non troppo scorrevole, ho deciso di portare a termine la lettura di questo romanzo nonostante mi fossi accorta che non mi sarebbe mai piaciuto troppo. Ho deciso di dare una chance al signor Brown, ripetendomi ad ogni capitolo che se era stato in vetta alle classifiche un motivo doveva pur esserci. Se posso dire la mia, questo motivo non l’ho proprio trovato.

Partiamo dal fulcro del libro stesso: gli enigmi, i codici che danno il titolo al libro. Essendo un romanzo basato sulla risoluzione di indovinelli, mi aspettavo di dovermi scervellare talmente tanto da dovermi arrendere e alzare le mani dinanzi all’astuzia dello scrittore. In realtà, ho trovato gli enigmi talmente ridicoli e di una semplicità così evidente da essere quasi un’offesa per il lettore. Altro tasto dolente sono i personaggi: privi di spessore e, ahimé, spesso di logica. Non si scava nel profondo e si rimane spesso troppo in superficie, seguendo i deliri di onnipotenza di un uomo che vede possibili simboli anche nei cartoni del latte.

Volendo parlare dello stile, per essere un thriller la scrittura di Dan Brown tende ad essere davvero troppo prolissa: basti pensare che ci vogliono circa 100 pagine solo per entrare fisicamente dentro al Louvre. Inoltre, un altro particolare che mi ha infastidito non poco è stata la traduzione di Valla, che spesso lascia intere frasi in francese senza spiegarne il significato.

Un libro che sicuramente ingrana dopo le prime 250 pagine, ma che non dice niente di nuovo ed è, a mio avviso, ben lontano dalla definizione di capolavoro che gli è stata affibbiata.

Voto: 0,5/5

 

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