Ho vissuto cinque anni a Bologna.
Cinque anni è un arco di tempo sufficiente per iniziare a considerare un posto, all’inizio nuovo, casa.
Mi sentivo a casa ogni qualvolta, tornando da fuori città o semplicemente rientrando dopo aver passato la giornata in giro, vedevo da lontano le due torri stagliarsi contro il cielo che cambiava colore… ma restava sempre bello.
Due giorni fa una mia amica che vive ancora lì ha pubblicato una foto di Bologna.
È stato un riflesso automatico, non mi sono neanche resa conto di quello che stavo scrivendo finché non ho visto il messaggio inviato comparire nella chat: “mi manca tutto”.
Era inevitabile, dovevo aspettarmelo: non puoi passare cinque anni insieme ad una persona o dentro una città e pretendere che non ti cambi o non ti si infili dentro.
Lei mi ha risposto che se mi mancava tanto Bologna allora probabilmente avrei dovuto scriverne.
Ho pensato che fosse un’ottima idea ed ho subito iniziato: infatti eccomi qui.
Eppure mentre ripenso alle torri e al profumo dell’aria la notte o ai lunghi pomeriggi rosati di primavera mi rendo conto che si, Bologna era bella ma il motivo reale per cui mi manca così tanto è che mi manca lei, l’amica di cui parlavo.
Perchè trovarsi bene da qualche parte è sempre questione di chi ti gira intorno e ti fa sentire bene.
Quindi mi correggo: ho voglia di parlare di Bologna ma soprattutto ho voglia di parlare di come Bologna mi abbia regalato un’amica vera.

I ANNO

Il primo anno non è stato facile.
Non sono decisamente il tipo di persona che adora i cambiamenti e sente un brivido di eccitazione pensando all’ignoto che la attende.
Io detesto i cambiamenti e spesso ne sono terrorizzata perchè ho bisogno di conoscere bene tutto quello che ho intorno per sentirmi al sicuro.
Giusto o sbagliato che sia, ognuno è fatto a suo modo ed io sono fatta così.
Perciò il primo anno non ero certo la classica matricola emozionata che non vedeva l’ora di andare a tutte le feste, fare nuove amicizie ed esplorare la città.
Non è stato facile ambientarmi ma, dato che non sono una che molla, ho deciso che dovevo trovare un modo per far funzionare le cose, per stare bene anche in un ambiente che in un primo momento mi risultava ostile.
Parlo di questo perchè ho scoperto, dopo un po’, di non essere stata l’unica ad avere problemi di questo tipo e se l’avessi saputo prima probabilmente mi sarei sentita meno piccola e sbagliata: ci si sente sempre meglio quando non si è soli a provare quello che si sta provando.
Comunque, se i primi mesi il mio quasi inesistente spirito di adattamento non mi aveva consentito di poter dire, agli altri e a me stessa, “si, sono qui, sono felice”, dopo un po’ durante quel primo anno la mia tenacia mi ha consentito di cavarmela e di conoscere delle persone di cui potevo fidarmi, poche naturalmente, e ciò sia perchè, anche se sarebbe bello il contrario, nella vita sono sempre poche le persone di cui ci si può effettivamente fidare, sia perchè (che sorpresa!) non sono il tipo che fa amicizia facilmente.
Però adesso avevo un gruppo di amici e cominciavo a conoscere le strade della città.
Tra le cose che ricordo con il cuore che diventa piccolo piccolo ci sono le giornate che passavo ai Giardini Margherita, tra tutto quel verde e sotto la luce che filtrava tra i rami degli alberi mentre noi stavamo distesi sopra una coperta a parlare di cosa avremmo fatto e di cosa ci spaventava.
Mi sentivo bene.

Ricordo anche il primo concerto a cui sono andata, la folla di gente che si spintonava di qua e di là, il mio telefono che si è rotto tra la confusione, io ed i miei amici che abbiamo perso l’autobus e siamo rimasti fuori al gelo fino alle sei di mattina.
Vivere la città, costruirci dentro ricordi come questi, mi aiutava a sentirla più mia.
Eppure mi sentivo sola, non sono una persona estroversa e non mi faccio conoscere a fondo da nessuno, quindi quando chiudevo la porta di casa e la mia maschera si scioglieva, avvertivo il peso di rimanere da sola con me stessa, di essere l’unica che poteva darsi conforto perché con gli altri non si apriva.

II ANNO

Il secondo anno è stato l’anno in cui mi sono innamorata delle due torri.
Abitavo lì vicino e quindi tutte le volte che mi avviavo verso casa e alzavo la faccia e le vedevo lì, ferme, come se stessero aspettando proprio me, mi veniva da sorridere.
All’inizio non le trovavo nemmeno belle e invece adesso la loro vista mi era indispensabile.
Erano un punto di riferimento, non so come spiegarlo.
Pensavo, a volte, che avrei avuto bisogno di qualcuno che fosse per me come quelle due torri, qualcuno che se ne stesse lì fisso, qualcuno che avrei sempre potuto vedere alzando il viso verso l’alto cercando di sentirmi a casa, qualcuno che stesse lì e mi facesse pensare che quello era il posto in cui mi sarei sempre potuta fermare a riposare.
E per riposare intendo far cadere le difese che mi proteggevano dal resto ma allo stesso tempo me ne allontanavano.
E proprio il secondo anno è arrivata una persona che per me è stata quel qualcuno: Irene.
Adesso non so bene se parlare di lei, e su di lei si potrebbe scrivere un romanzo perchè, davvero, non ho mai conosciuto una persona così profonda e così complicata, o se parlare invece di quello che ho fatto durante quell’anno.
Ripiegherò su una serata particolare, una serata in cui mi sono sentita parte di Bologna e in cui ho scoperto quale tesoro fosse avere un’amica come lei.
Era il 28 Novembre 2015, quella sera c’era il concerto di Mecna ed entrambe eravamo decise ad andare a qualsiasi costo.
Forse già il fatto che avessimo gli stessi gusti musicali avrebbe dovuto farmi capire che lei non sarebbe stata un’amica come tante.
Ma io ho i miei limiti e ho bisogno di tempo.
Mentre mi affannavo a cercare autobus per raggiungere il posto lei ha deciso che saremmo andate a piedi, perchè lei preferisce così e… per fortuna – ho pensato – perchè anch’io non amo i mezzi pubblici.
Abbiamo camminato per un po’ tra il freddo dell’autunno che cedeva il passo all’inverno, un occhio alla strada segnata su Google maps, un occhio in giro.
L’aria era fredda, di quel freddo capace di strapparti dai tuoi pensieri cupi e farti sentire vivo.
Abbiamo parlato per la strada e siamo scoppiate a ridere insieme quando abbiamo creduto di aver intravisto Mecna.
Ci siamo commosse sulle stesse canzoni e abbiamo parlato tanto.
In realtà non ricordo quello che ho detto ma ricordo bene che dopo che c’eravamo lasciate ho realizzato di aver parlato con una persona che sapeva ascoltare davvero.
Una persona che non distoglieva lo sguardo e non si faceva distrarre ma che era capace di mettersi nei tuoi panni e di arrovellarsi per trovare una soluzione che andasse bene per te, perchè le importava davvero.
La sua capacità di ascoltare si unisce a quella di farti sentire totalmente a tuo agio, ti trasmette quella calma e sicurezza che ti consentono di essere te stessa senza timore di essere giudicata; ha quel modo di fare che, senza bisogno che ti dica niente, ti fa capire che lei è lì per te e non importa quanto le tue paranoie siano strane o la tua vita incasinata, lei non ti farà mai sentire sbagliata.
È una cosa che adoro di lei ed è il motivo per cui io, io che non parlo mai con nessuno e gioco a fare quella sorridente che non sta mai male, con lei ho abbassato tutte le difese facendole conoscere chi sono davvero, una persona spesso triste e nervosa e decisamente lunatica e sapete lei mi ha fatto il più grande dei regali… ha visto le parti peggiori di me, ha accettato le mie stranezze e mi ha voluto bene lo stesso.

III ANNO

Il terzo anno ho scoperto che c’è una cosa che amo particolarmente di Bologna.
Le scritte sui muri.
Trovavi frasi di ogni genere, a volte qualcosa di stupido che però ti faceva sorridere; altre qualcosa di malinconico o romantico.
Leggere sui muri mentre camminavo da sola per andare a lezione, o a fare la spesa, o a sedermi a Piazza Maggiore per restare sola con i miei pensieri, mi faceva stare bene, mi sembrava come se ci fosse sempre qualcuno che volesse parlarmi, come se i muri di quella città volessero condividere la loro storia con me, perchè non ero invisibile e non gli ero indifferente.
La mia frase preferita si trova su un muro di Via Castiglione, poco prima dell’incrocio con Via de Poeti: “perchè nessuno urlerà nel deserto il tuo nome.”

Ho un’anima troppo malinconica per restare indifferente ad una frase del genere, ormai dovreste averlo capito.
So che a volte la solitudine è più una sensazione che la realtà ma non è sempre facile ricordarselo, specialmente quando è inverno e ci sono meno cinque gradi, la luce del sole non riesce a passare tra le nuvole scure ed è mattina presto, le strade sono deserte e tu cammini in mezzo al gelo col fiato che si condensa in una nuvoletta di fumo e sai che a casa rientrando non ti aspetterà nessuno e che il freddo che c’è lì fuori te lo porterai dentro, probabilmente ti ci addormenterai.
Ne ho avute giornate così, giornate in cui mi sentivo disperatamente sola ed ero annientata dalla paura e troppo orgogliosa per chiedere aiuto e a volte nei pomeriggi grigi guardavo il telefono sperando che chiamasse qualcuno ma non c’era mai nessuno.
Perché nessuno urlerà nel deserto il mio nome.
Nessuno tranne Irene.
Non so come lei facesse ma quando pensavo che a nessuno importasse e che io non fossi indispensabile lei mi chiamava.
E non voleva uscire perché voleva uscire, voleva uscire perché voleva vedere me.
È la classica persona a cui non importa dove ma con chi.
E mi faceva sentire importante e mi faceva sentire bene e in quasi tutti gli attimi inafferrabili di felicità che ho avuto a Bologna, c’era lei.

IV ANNO

Piazza Santo Stefano è una piccola piazza raggiungibile dall’omonima via che si trova appena dietro le torri.
È la piazza dove ho fumato la mia prima sigaretta seduta per terra quando mi sono trasferita.
Ma ho iniziato ad apprezzare la sua bellezza grazie ad Irene.
Probabilmente è merito della sua sensibilità se riesce a fare delle foto perfette, di quelle che oltre ad essere belle riescono a comunicarti qualcosa.
L’emozione che c’è dietro.
Un pomeriggio di Ottobre eravamo lì sedute a terra a fumare e lei ha scattato una di quelle foto.
Faceva ancora caldo, non c’era vento e l’aria era profumata di quella malinconia propria dell’autunno.
La luce dorata del tramonto scendeva dai portici e noi la guardavamo sedute sui ciottoli.
Ero molto preoccupata per qualcosa che adesso a pensarci mi fa ridere ma comunque ero preoccupata e lei era lì e la sua semplice presenza mi ha dato la forza di non scoppiare a piangere perché pensavo che lei c’era ed ero talmente fortunata ad averla lì che tutto il resto sarei riuscita a risolverlo, in un modo o nell’altro.
Quello è stato anche il giorno in cui ho capito che lei è la persona meno superficiale che conosca e questo lo considero un complimento.
Forse il migliore che io possa fare.
Si è messa a parlarmi delle coincidenze, di come delle volte le cose risultano così strane che è impossibile credere che sia solo merito del caso e ti metti a pensare che forse, tra le cose e tra le persone, c’è una connessione invisibile che bisogna seguire.
Parlava serena e assorta nei suoi pensieri e aveva il coraggio di metterli fuori, un coraggio che spesso io non ho, e mi sentivo onorata di conoscere tutto quello che le passava per la mente perché lei è una di quelle persone che quando le saluti ti senti incredibilmente piena.
Una persona con cui crescere e che ti fa crescere.
Non sono più riuscita a passare da quella piazza senza pensare a quel momento.

V ANNO

Sul finire dell’Agosto 2018 mi stavo preparando a tornare a Bologna per l’ultimo anno di università.
Di solito ero sempre un po’ triste quando dovevo lasciare casa dopo averci passato l’estate ma quell’anno ero incredibilmente tranquilla.
Ero sicura che una volta tornata sarei comunque stata a casa perché avevo una persona speciale che mi dava la sicurezza che ci sarebbe sempre stata.


Irene mi ha fatto apprezzare Battisti, Dalla e Rino Gaetano.
La musica italiana non mi ha mai fatto impazzire ma lei mi trascinava a queste serate di cover piene di gente e vino e sigarette e ci divertivamo ballando le canzoni e facendo a volte i passi giusti, a volte quelli sbagliati… solo per poi riderci su.
Da allora nelle mie playlist hanno iniziato a comparire canzoni tipo Disperato erotico stomp e Il cielo è sempre più blu.
Mentre le ascoltavo sorridevo perché ricordavo la sera prima e il momento in cui le ballavamo insieme.
Erano momenti preziosi perché avevo vicino una persona vera e perché per quella manciata di minuti di durata della canzone io non pensavo assolutamente a niente, la mia mente era bianca, spenta e il mio sorriso acceso e quasi non mi rendevo conto di oscillare sulle gambe: ero felice.
Ho avuto tanti alti e bassi durante quegli anni ma ho avuto anche tanti momenti del genere, momenti da ricordare, momenti puliti… come una boccata d’aria fresca dopo essere stati chiusi a lungo in una stanza buia.
E volevo scrivere di tutto questo perché spesso con le parole dette ad alta voce non sono brava a spiegare alle persone quanto valore abbiano per me.
Non sono brava a dire grazie, non sono brava a dire ti voglio bene.
Ma vedete ci sono persone che hanno la capacità di calmarmi.
Non importa cosa dicano o come lo dicano.
È il semplice fatto che si trattta di loro.
A volte anche il solo pensare che esistono mi fa sentire dieci volte meglio.
La mia persona in questo caso è Irene… per questo dovevo almeno provarci, provare a dirle questo nel modo migliore: grazie, ti voglio bene.